venerdì 16 maggio 2014

I peccati dei padri: il deficit democratico dell'Italia.

Il testo che propongo è la traduzione di gran parte dell'articolo The sins of the fathers: Italy's democratic deficit di Alexander Lee. In questo articolo, nonostante ci siano dei punti dubbi e discutibili, si danno un'interessante visione e interpretazione del sentir democratico italico, fornendo così degli spunti per spiegare l'esistenza di una forte mentalità élitista che, tra le altre cose, banalizza e si oppone alle crescenti richieste di nuovi strumenti per la partecipazione politica (democrazia diretta e recupero del significato più autentico di sovranità popolare, a volte per l'appunto confuso con la sola “liberazione” da una “dominazione esterna”).

I peccati dei padri: il deficit democratico dell'Italia

Il 17 marzo l'Italia celebrerà il centocinquantesimo anniversario della sua unificazione. […] Secondo molti commentatori la vittoria di Berlusconi mostra che per i legislatori italiani la continuità politica e gli interessi personali sono più importanti della responsabilità democratica. Nel momento in cui la nazione guarda indietro ai suoi 150 anni di unità, molti mettono in discussione il futuro della democrazia italiana e si domandano se lo spirito del Risorgimento — il movimento che ha portato all'unificazione — è stato dimenticato.

Ma è troppo facile vedere il passato attraverso occhiali con lenti rosa. Anche se l'Italia ha una lunga storia di governi democratici, a partire dai comuni medioevali e dalle repubbliche marinare del Rinascimento, la sua pratica democratica dall'unità in poi è stata, nella migliore delle ipotesi, ambivalente.

Nel tardo 18° secolo e agli inizi del 19° il mondo era infiammato dal fervore repubblicano. La Rivoluzione Francese e la guerra d'Indipendenza Americana mise la responsabilità democratica in cima all'agenda politica e gli eventi del 1848 resero il repubblicanesimo la chiamata squillante dell'Europa. Però l'Italia rimase, in paragone, immune alla mania repubblicana.

Fin dall'inizio coloro che chiedevano l'unità d'Italia non erano affatto entusiasti della democrazia, quando non le erano addirittura ostili. Intorno al 1830 Mazzini — riverito come uno dei padri fondatori dell'Italia — pensava che gli individui fossero meno importanti dello stato. Il filosofo-politico Gioberti avversava il repubblicanesimo sulla base del fatto che avrebbe ripetuto il caos dei comuni medioevali. Anche la breve Repubblica Romana del 1848-1849 tradiva il suo nome: la città era governata da un triumvirato “onnipotente” che convinse Garibaldi che la dittatura era vitale per il futuro dell'Italia.

L'idea di libertà democratica era similmente assente nello stato italiano appena unificato. Dopo il 1861 il parlamento italiano suscitò poco entusiasmo e la democrazia fu vista come un'idea pericolosa persino dai rappresentanti eletti. Nel 1864 Francesco Crispi, due volte primo ministro, descrisse la democrazia rappresentativa come un invito alla divisione e all'agitazine civile, e nei postumi della Prima Guerra Mondiale un futuro ministro, Giovanni Gentile, negò che gli ideali democratici fossero stati parte del Risorgimento1. Data questa resistenza, non è sorprendente che le elezioni del 1919 portarono a un parlamento in cui gli antidemocratici avevano una larga maggioranza.

Gli atteggiamenti verso la democrazia migliorarono leggermente dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma lo scetticismo popolare nei confronti delle istituzioni rappresentative fu alimentato dalla corruzione che era una parte inalienabile della vita politica italiana tra il 1861 e il 1992, anno in cui scoppiò lo scandalo di Tangentopoli e le risultanti inchieste sui vari crimini causarono il collasso di tutti i maggiori partiti politici.

Anche per le figure prominenti del Risorgimento il parlamento era un mercato in cui scambiare benefici, lavori e contratti. Tra il 1868 e il 1889 i ministri vendettero il monopolio del tabacco a un prezzo ridicolmente basso in cambio di mazzette; e lo scandalo della Banca Romana nel 1889-94 rivelò che due primi ministri avevano ricevuto prestiti di dubbia provenienza in cambio di influenza politica. Vittorio Emanuele Orlando (primo ministro tra il 1917 e il 1919) orgogliosamente si descriveva come un mafioso2 e Francesco Crispi si dimise dall'incarico di ministro dell'interno dopo esser stato accusato di bigamia3. Non senza motivo, un ex ministro, Pasquale Villari4, descrisse il parlamento come un pozzo nero. Nel 1922 Mussolini trasse profitto da questi scandali, ma perpuetò ulteriormente la cultura della corruzione nel potere.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale gli abusi peggiorarono. I Democratici Cristiani tennero la morsa alla gola del governo per più di 40 anni attraverso una rete di “protezioni”. Il primo ministro Giulio Andreotti e Amintore Fanfani fecero in modo che ogni contratto governativo e posizione fossero dipendenti dal supporto dato alla DC. Quando il suo predominio fu sfidato, a metà degli anni Ottanta, il crescente Partito Socialista Italiano costruì il suo successo emulando il clientelismo dei suoi avversari; il suo leader, Bettino Craxi, comprò il suo potere a colpi di mazzette e corruzione.

Dunque, perché la democrazia non fu tenuta in considerazione dopo il Risorgimento?

La prima risposta si trova nel significato storico di “libertà”. Nel Risorgimento “libertà” raramente faceva riferimento a valori democratici. Dal 1796 fino al 1922, “libertà” molto comunemente faceva invece riferimento alla libertà dalla dominazione straniera. L'Italia, essendo stata per la maggior parte della sua storia un'accozzaglia arlecchinesca di piccoli stati, era soggetta all'invasione straniera. Quando i “democratici” del 1830 chiesero la sovranità popolare, perciò, non avevano come ideale il repubblicanesimo democratico, ma l'indipendenza dall'oppressione straniera. Così, nell'ottobre del 1860, lo studioso Francesco De Sanctis sollecitò gli avellinesi a supportare il nuovo stato sulla base del fatto che avrebbe dato loro la libertà dal giogo straniero, e non per ottenere la libertà democratica. Già intorno agli inizi del XX secolo la libertà democratica era spesso subordinata alle aspirazioni imperiali. Legata agli abusi continui del parlamento, la democrazia non ebbe che poca o addirittura nessuna risonanza in Italia ai tempi in cui Mussolini salì al potere. Solo dopo la Seconda Guerra Mondiale “libertà” finì per significare inequivocabilmente diritti democratici; ma, a quel punto, il danno era stato già fatto.

La seconda risposta sta nella natura frammentaria dell'Italia prima e dopo l'unità. La lunga storia di divisioni politiche portò alla petrificazione degli interessi locali e mutilò lo sviluppo di qualunque senso di comunanza.

“Italia” aveva ben poco significato nei primi decenni dopo l'unità. Nel 1861, per esempio, i siciliani comunemente credevano che La Talia (storpiatura di L'Italia) fosse il nome della moglie del nuovo re e le folle a Napoli si chiedevano cosa fosse “Italia”. L'Italia era ancora divisa come sempre e le persone mostravano più fedeltà alla loro città o provincia che al nuovo stato. Queste differenze furono esacerbate dai problemi pratici del governo. I deputati tendevano a formare gruppi regionali e l'amministrazione locale era quasi invariabilmente consegnata nelle mani di magnati locali o addirittura di mafiosi.

I governi successivi riconobbero il problema delle differenze regionali, ma effettivamente peggiorarono il sentimento di divisione. Dai Settanta del 19° secolo fino ai Novanta del 20°, la questione del meridione dominò il dibattito politico e c'era la sensazione diffusa che il Sud fosse economicamente indietro e culturalmente alieno e, di conseguenza, ricevette una quota sproporzionatamente piccola di investimenti governativi5. Anche oggi il Sud è considerato, da molti del Nord, non tanto italiano; e la Lega Nord continua ad attaccare la spesa governativa a favore del Sud e pretendere l'indipendenza del Nord. Tanto più forte è stata questa sensazione di divisione interna, tanto più deboli sono diventati gli appelli all'interesse comune.

Senza un'eredità di libertà democratiche e di senso di comunanza, la politica italiana dopo il 1861 è stata priva dell'apparato intellettuale per sviluppare una nozione di responsabilità politica. Dal Risorgimento fino all'ascesa di Mussolini, sia l'onestà dei rappresentanti eletti che il prestigio della democrazia parlamentare furono fatalmente indeboliti. Con un'eredità del genere, l'Italia del dopoguerra è stata condannata a vivere prigioniera del suo passato.

Se le celebrazioni di questo mese sono ossessionate dallo spettro di Berlusconi, è sbagliato dire che la sua sopravvivenza è un tradimento dello spirito del Risorgimento. Berlusconi non è nulla di nuovo: è l'erede di una lunga storia di abusi democratici derivati dalla debolezza dell'unità italiana. L'anniversario del Risorgimento serve a ricordare che, se l'Italia ha intenzione di costruire un futuro di responsabilità democratica, deve superare i fallimenti dello stesso Risorgimento.


  1. Qualcuno obietterà che non è molto sorprendente, visto come la storia ci ricorda Giovanni Gentile: in breve, diciamo, è ricordato soprattuto per essere stato una specie di ideologo del fascimo. Però ciò non basta a rendere la sua opinione indegna di considerazione e a ignorarla come non rappresentativa di qualcosa che può esistere a prescindere dal fascimo. [N.d.T.]

  2. Più precisamente usò queste parole: «Or vi dico, signori, che se per mafia si intende il senso dell'onore portato fino all'esagerazione, l'insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte. Se per mafia si intendono questi sentimenti, e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal senso si tratta di contrassegni individuali dell'anima siciliana, e mafioso mi dichiaro io e sono fiero di esserlo!». Sebbene ciò non sia esattamente come dichiararsi mafioso (lasciando la definizione al “caso” o meglio, alla “pratica”), è pur vero che può sembrare l'esaltazione di alcuni valori non alieni alla mafia. Oggi, una frase del genere causerebbe diversi isterismi (almeno mediatici). [N.d.T.]

  3. Ben poca cosa! Oggi, per veri crimini, nemmeno si dimettono… farlo per una accusa di bigamia sarebbe forse visto come un eccesso. Infine, tra l'altro, l'accusa risultò falsa perché il precedente matrimonio non era valido. [N.d.T.]

  4. Il testo riporta Pasquale Villa, che non risulta. Pertanto penso che si tratti di Pasquale Villari. [N.d.T.]

  5. «Il sistema fiscale, il regime di liberalismo completo negli scambi, gli ordinamenti amministrativi, la legislazione penale e civile furono adeguati a quelli del Piemonte sabaudo. La pressione fiscale si scaricò così su un'economia che non era in grado di sostenerla. Il regime liberistico travolse quel po' di sviluppo manifatturiero che aveva attecchito intorno alla capitale negli ultimi tempi dei Borbone» (Treccani)

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